Rilgar - Capitolo Uno. (2a parte)

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    Wonder and Ruin

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    Premessa. Questa parte è lunga in tutto 2400 parole circa: non potevo dividerla poiché sarebbe stato troncare il dialogo che la costituisce (e ho pure "spuntato" molte parti).
    Il capitolo non contiene scene "VM18" ma nel dialogo spuntano diverse battute e allusioni.

    «Bentornata, Sonja.» Le altoparlanti sopra la porta parlarono con una piacevole voce femminile. «Sistema di allarme disattivato.» La porta si aprì con un clack.
    Ma c’era qualcuno dentro – Sonja si immobilizzò appena varcata la soglia. Gli spiragli lasciati dischiusi delle veneziane proiettavano sulla parete dell’ingresso l’ombra di qualcuno adagiato sulla poltrona, e – strizzò gli occhi – un oggetto semisferico, o ricurvo, sul tavolino accanto.
    «Vieni avanti. Se avessi voluto farti del male, mi sarei nascosto.» Quella voce… Sonja perse un battito. «E poi, Cristo, non voglio farti del male.»
    Con la destra Sonja strinse la coppa come se fosse un oggetto contundente, e attraversò ad ampie falcate l’ingresso. Gli occhi si adattarono alla penombra. «Eccome se sei cambiato.»
    «Anche tu. Sei una campionessa ora.» Mikael si stiracchiò contro lo schienale della poltrona ad acqua, che gorgogliò sotto il suo peso. Teneva la mano vicina alla maschera-elmetto nera sul tavolino accanto. «Ma sei arrivata soltanto seconda.»
    «Non fate che dirmelo tutti, sai? Beh, ‘fanculo.» Piantò il trofeo su un mobile con uno schianto. «Questa è la mia prima coppa, voglio godermela.»
    Mikael strinse le spalle, nel colletto rosso della giacca di pelle che teneva sopra una tuta da lavoro portuale. «Nel mio lavoro, arrivare secondi significa morire.» Scambiò un’occhiata con l’elmetto-maschera. «Spesso.»
    «Permettimi, genio, ma il tuo sport è diverso dal mio.» Si accigliò. «Come hanno iniziato a chiamarti, l’Eccida di Blunt? L’Assassino Poeta?»
    Lui ebbe un sorriso appena accennato. «La seconda che hai detto è meglio.» La mano scivolò a carezzare l’elmetto-maschera sul tavolino, i cui occhi bianchi di vetro sembravano fissarla.
    Esitante, Sonja fece un passo avanti – al diavolo, è casa mia – e si lasciò cadere sul divano di fronte a lui. Accavallò le gambe. «Il fatto che tu ti porti dietro quella robaccia mi suggerisce che questa non è una visita di cortesia, giusto?»
    «Questa la porto comunque.» Mentre parlava, ai margini del volto si tendevano o accorciavano sui muscoli dozzine di piccole cicatrici, simili a graffi; i suoi capelli corvini scarmigliati si erano ritirati in una stempiatura sui lati dove tre micro-prese shunt foravano ogni tempia. Merito di quella maschera, sicuro.
    «Vuoi che accenda la luce?» Quel silenzio e tutto quel non detto, dopo quattro anni, la stava stancando.
    «Ci vedo benissimo così.»
    Lei sospirò. E certo. Premette uno dei tasti sul bracciolo: le veneziane a parete iniziarono ad alzarsi con un ticchettio di legno. La luce notturna inondò la stanza, si riversò sul quadro rettangolare sulla parete: una ragazza nuda ritratta di spalle, sdraiata sopra uno specchio d'acqua.
    «Quadro interessante.» Mikael si strofinò la cicatrice sotto il pizzetto appena ricresciuto – quella era di sicuro merito di qualcun altro.
    «Cos’è, lo reputi di cattivo gusto?»
    «Mi piace molto. I tuoi gusti non sono cambiati.»
    «Neppure i tuoi, vedo…»
    Fece di nuovo quel sorriso accennato. «Ricordi? All’Istituto, quando rompevi con una ragazza o ti scornavi con un ragazzo, passavi una notte da me… perché ti consolassi.»
    A Sonja si strinse la gola: il sorriso (quasi) che Mikael aveva adesso di sicuro non era non era il suo vecchio sorriso sardonico, con cui sfoderava i canini. «Già, e le cose non sono cambiate molto… a parte che tu non ti fai vedere da quattro anni.» Sospirò. «Piuttosto dimmi di te. In questi anni, quante ragazze ti sei degnato di considerare?»
    Lui alzò lo sguardo, come a perdersi nei pensieri. «Due… credo.»
    Credo? Sonja alzò un sopracciglio. «Non dirmi che in assenza sei partito con i ragazzi.»
    «No. Almeno finora.»
    «Ho perso un punto. Scoperto qualcosa?» Si sporse avanti, afferrò il bordo del divano. «Perché io ero rimasta al fatto che non ti piacciono i ragazzi.»
    Mikael raccolse l’elmetto-maschera dal tavolo – Sonja rabbrividì, tese i muscoli – ma anziché indossarlo lo tenne sollevato con una mano appena sopra le ginocchia, per fissarlo negli occhi. Come il buffone Yorick, pensò lei. La voce di Mikael si fece sommessa. «L’ironia con cui parli,» disse «i tuoi dettami e artifici di etica e costume, perfino i gusti sessuali, l’orientamento… sono la tua identità di fronte agli altri, ma non sono te stesso.»
    «Cristo, Mikael, fai paura.» Si issò in piedi, lontana dagli occhi bianchi della maschera, e scalciò via le scarpe. Si diresse fino al banco da bar che separava il soggiorno dalla cucina, su cui raccolse due bicchieri. «L’unica cosa certa è che sei diventato un edonista.»
    «Forse è la definizione corretta.»
    Sospirò mentre versava la birra. «Allora non rifiuterai, immagino…»
    «Ho smesso di bere, in realtà.» La sua voce assunse una sfumatura divertita. «Ma per te farò un’eccezione.»
    Una pioggerella riprese la tamburellare sui vetri – dovevano fare qualcosa per il controllo meteo, decisamente. Sonja portò il bicchiere a Mikael – e lei doveva cambiare argomento. «Parlando di cambiamenti, ti sei fatto più robusto.»
    «Soltanto nell’ultimo anno, la mia massa muscolare è molto aumentata. Le mie potenzialità di scatto e di riflessi sono quasi raddoppiate.» Perse lo sguardo nel bicchiere, che iniziò a far ruotare. «Non considero nessun indice valido per misurare l’intelligenza, ma credo che i risultati dimostrino… che il contatto con la Maschera ha un effetto, quantomeno.»
    E lo vedo. «Cos’è, Mikael, stai tentando di gasarmi?» Ma le sembrava sincero, da come parlava e come muoveva gli occhi.
    Mikael rimase in silenzio e sorseggiò la birra fino a lasciare solo un fondo di bicchiere. Alzò lo sguardo per incrociare il suo. «Sonja, mi serve il tuo aiuto.»
    Sonja sbatté il bicchiere sul tavolino accanto a lei, un crack risuonò nella stanza. Una vampata di aria bollente la fece balzare in piedi, scossa da tremiti, in due ampie falcate raggiunse Mikael la sua poltrona: il suo ceffone gli schioccò contro la guancia destra, lo fece voltare – mentre la birra schizzò via dal bicchiere, in direzione opposta alla maschera.
    Mikael inspirò con le narici, a lungo: il ceffone a mano aperta aveva lasciato un’impronta sulla faccia. «Deduco… di essermelo meritato, in qualche modo.»
    «Ascoltami, brutta troia.» Sonja lo afferrò ai lati della mandibola, conficcò le unghie nella pelle sopra le articolazioni. «Tu non ti fai vedere per quattro anni, e io so che sei ancora vivo perché ogni tanto il tuo nome compare sui giornali, e ora compari qui… solo per chiedermi un aiuto?» Premette la fronte contro la sua, per schiacciarlo contro lo schienale. Oramai le parole le sgorgavano dalla gola – ma chissenefrega. «Che cazzo, non ho mai smesso di considerarti mio amico – per quello che vale. Quando hai falciato tutta quella gente a Blunt, e i giornali si lambiccavano su chi fosse l’autore, io sapevo che eri stato tu. Ma dimmi, perché dovrei fidarmi di te e aiutarti, dopo quattro anni?»
    «Perché sei mia amica.» Mosse soltanto le labbra, la voce flebile. «E perché mi devi un favore.»
    Quella frase la colpì come una gomitata nello stomaco – si staccò da lui e distolse lo sguardo, verso la coppa che adesso scintillava alla luce notturna. Era vero: se – prima di scomparire – Mikael non avesse messo fuori gioco i suoi ultimi creditori lei si sarebbe trovata lì, ora, con quella coppa? «Quando andavamo assieme all’Istituto» strinse i denti «avevamo stabilito di non contare i favori.»
    «Mi pare vigesse anche il principio implicito di non rinfacciare la stessa amicizia.»
    In un lungo sospiro, Sonja si lasciò di nuovo cadere sul divano. La voce le uscì roca. «Va bene. Se posso ti aiuterò - se significa non sporcarmi le mani.»
    Mikael sorrise di nuovo, nonostante il livido lasciato dalla mano. «Sonja, non intendo metterti in pericolo.» Si scambiò uno sguardo con la maschera, cosa che a lei diede un brivido. «Devi... interagire con una persona, soltanto questo. Allo scopo raccogliere informazioni su di lei, che io non intendo né uccidere né far sparire. Non posso dirti di più.»
    «Andiamo. Devo almeno sapere chi sarà questa persona.» Lei accavallò le gambe. «Fuori il nome.»
    Su quella poltrona ad acqua, con i gomiti sui braccioli, per un attimo Mikael sembrò su un trono – con una mano tatuata sulla faccia piena di minuscole cicatrici. «Una politica del Free Choice Party. Lyzabet DeSael.»
    «Te lo scordi.» Sonja socchiuse gli occhi ed espirò dalle narici.
    «Simpatizzi per lei?» Si accigliò. «Vivi a Rilgar da sei mesi – come Ospite. Non hai il diritto di voto.»
    «Idiota.» Storse le labbra in un mezzo sorriso. «Non mi immischio negli affari di chi mi porge da mangiare. E poi, perché non te ne occupi tu?»
    «Perché io sono entrato clandestinamente in città. Non ho una tessera da Ospite né una qualsiasi autorizzazione con cui muovermi. Meno esco dal mio rifugio sotto le telecamere di questa città, meglio è.» Si massaggiò con il dorso della mano la cicatrice sul mento, lo sguardo divertito. «E visto che ottenere una tessera qui richiede un Test Attitudinale, devo scartare l’ipotesi di un’identità fittizia.»
    Un test attitudinale. Sonja fu percorsa da un brivido: la polizia aveva ritrovato uno solo dei suoi creditori - annegato in un canale di scolo, i polsi e le dita spezzati.
    «Perché dovrei... raccogliere informazioni, cioè andare a letto probabilmente, con questa politica importante? Immagino non è a lei che tu dovrai far saltare la testa - spero. E chi diavolo può pagare te per -»
    Mikael alzò la mano per interromperla. «Se collaboro con qualcuno...» esitò, come se stesse soppesando le parole sulla punta della lingua «...qualcuno ingaggiato da me, non posso rivelargli chi sia il mio committente. Né posso svelargli nome e cognome del bersaglio, se questo non è necessario... perché potrebbe dedurre chi è il committente.» Appoggiò il bicchiere a terra con un toc. «Non posso né confermare né negare le tue supposizioni.»
    Si percepiva qualcosa di strano nelle parole con cui aveva risposto, pensò lei, ma soprattutto quello era un salto nel vuoto.
    Ma era vero: lei aveva un debito che in quel momento le premette sulla schiena, fra le scapole, come un peso. E Mikael aveva detto che non ci sarebbero state conseguenze per lei (poteva fidarsi?).
    E oramai era curiosa.
    «A due condizioni, Mikael, accetto ma a due condizioni.» Lo fissò negli occhi e scandì bene le parole. «Primo. Sono una Hoverboarder, non una prostituta. Posso... sedurre... una politica se mi piace: non chiedermi di portare a letto tutto il partito.»
    «Naturale.»
    «Secondo. Abbiamo stabilito di non contare i favori, è vero... ma se io devo sfacchinare al posto tuo, allora ci divideremo a metà quanto i tuoi committenti ti pagheranno.» Inspirò a fondo, la gola si era serrata. «Questo, oppure niente.»
    Mikael esitò un secondo, poi sorrise ancora. «Sonja,» disse «eccetto quanto necessario per le mie spese, anche tutto il compenso potrà essere tuo... se vuoi.»
    Lei continuò a scrutarlo senza dire niente.
    «Bene, allora passiamo a pianificare!» Mikael intrecciò le mani. «Fra sei mesi ricominceranno le gare: stavolta ti servirà uno sponsor, un sostenitore economico, se vuoi arrivare in fondo senza che il tuo Hoverboard schizzi in aria. Sai chi è un ottimo sponsor?» Per la prima volta in quella serata - no, in quei quattro anni - sfoderò un sorriso con i canini scoperti e gli occhi scintillarono. «I partiti politici.»

    Passarono oltre un'ora a discutere, e il picchettare della pioggia sulla finestra si trasformò in uno scroscio.
    Ma tutto aveva un senso, tutto aveva uno scopo... e soprattutto, stava iniziando a interessare anche a lei. Anche se non lo disse ad alta voce. «Va bene, va bene», appoggiò il gomito al banco da bar, «mettiamo pure che questa politicante accetti di vedermi... quando vuoi che lo faccia?»
    «Quando vuoi.» Mikael bevve le ultime gocce dal bicchiere. «Ma per adesso il tuo nome è ancora sulla bocca di tutti. Almeno qui a Rilgar.»
    Con la testa pesante, Sonja sospirò. «Domani faccio visita alla mia Hoverboard. Dopodomani, provvederò.»
    Mikael si tirò in piedi e i suoi abiti tremolarono e sfrigolarono, come un ologramma - sono un ologramma, capì lei in ritardo, sopra i vestiti veri. Quando lui inarcò e stiracchiò la schiena, quegli abiti scomparvero: rivelarono la tuta militare in kevlar nero che copriva l'intero corpo, dai rinforzi neri, collegati da una rete di articolazioni nere sulle braccia e sulle gambe.
    Lo copriva come una seconda pelle: anche le mani erano nere adesso, notò lei, e anche il collo fino quasi al mento. Contrastava con la pelle chiara.
    «Chiedo scusa», disse lui e si strinse nelle spalle. «Ma se devo muovermi sui tetti per non essere visto dalle telecamere, non posso farlo... in abiti civili. Puoi aprire i vetri?»
    Lei premette il tasto e i vetri si dischiusero, la pioggia entrò scrosciante a battere sul pavimento, sullo schienale della sedia. Mikael sollevò delicato dal tavolino la maschera, simile ad un casco... la indossò. Rumore di ganci che scattarono a chiudersi, e di aghi che scivolarono nelle tempie - dritti nel cervello - poi un crepitare. Il metallo nero divenne dello stesso identico nero della tuta. Gli occhi, di un bianco-grigio opaco, divennero di un bianco acceso.
    «Aprirà il Signore il più grande dei suoi tesori, il cielo», la voce uscì ovattata e metallica dai pori della maschera «per dare alla tua terra, ai suoi tempi, la pioggia.»
    Sonja capì l'ironia: le piogge di Rilgar erano indotte dall'impianto metereologico. E quello la spinse a fare un passo avanti, deglutì. «Non ti ho ancora chiesto una cosa.»
    «Allora dimmi.»
    «Prima hai detto che... se vorrò... potrei tenermi anche tutti i soldi. Allora perché questo lavoro? Perché uccidi? se non lo fai per soldi -»
    Lui la interruppe. «Costituirai giudici e scribi in tutte le città che il Signore tuo Dio ti dona, e giudicheranno il popolo con sentenze giuste.»
    «Cioè? Lo fai per - giustizia
    «In un mondo in cui le leggi sono ingiuste oppure quelle giuste sono superflue, l'unico giudizio valido è la spada.»
    «Non capisco.» Strinse i denti.
    «Capirai.» Attraversò la porta. La pioggia scrosciava contro i vetri e il pavimento ma non faceva alcun rumore sulla sua tuta e sulla maschera, che gradualmente stavano diventando trasparenti. «Per il resto, ci rivedremo fra qualche giorno.»
    Scavalcò la ringhiera del terrazzo, e divenne invisibile prima ancora di cadere nel vuoto.
    Fu a quel punto che Sonja smise di trattenere il fiato, e chiuse gli occhi. A tentoni premette il tasto che con un lungo ronzio richiuse il vetro, il rumore della pioggia si attenuò. Nella sua testa, risuonò la voce di voce dell'Assassino Poeta: l'unico giudizio valido è la spada.
    Distorta dai pori della maschera, non era la stessa voce di Mikael. Forse ho sbagliato ad accettare.
     
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    Le altoparlanti

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    CITAZIONE
    Mikael strinse le spalle, nel colletto rosso della giacca di pelle che teneva sopra una tuta da lavoro portuale.

    La virgola andrebbe dopo “pelle”, messa dopo “spalle” spezza il senso della frase. Cosa intendi di preciso con: “strinse le spalle nel colletto”? Ha alzato le spalle o le ha scrollate? Chiedo perché questa frase, una delle più usate nella letteratura di genere – per lo meno per mia esperienza – ha sempre un aspetto ambiguo.




    CITAZIONE
    Lui ebbe un sorriso appena accennato

    In questo caso non sarebbe meglio: accennò un sorriso?




    – al diavolo, è casa mia – - inizia con la maiuscola, tanto più che è un pensiero diretto.





    si tendevano o accorciavano ---> si tendevano e si accorciavano




    Merito di quella maschera, sicuro. ---> questa dovrebbe stare nella riga sotto e proseguire con la battuta, perché è un pensiero della protagonista.




    il sorriso (quasi) ---> evita le parentesi, non sono belle da vedere in un romanzo, e comunque sono sostituibili, tipo: quell’accenno di sorriso, quel mezzo sorriso, quella smofietta, ecc.




    la tamburellare sui vetri –---> refuso, “a tamburellare”



    scossa da tremiti, ---> io qui ci avrei messo un punto e virgola.



    CITAZIONE
    in due ampie falcate raggiunse Mikael la sua poltrona: il suo ceffone gli schioccò contro la guancia destra, lo fece voltare – mentre la birra schizzò via dal bicchiere, in direzione opposta alla maschera.

    Allora, il periodo è alquanto confuso, cerchiamo di rimettere le cose in ordine: in due ampie falcate raggiunse la poltrona di Mikael: il ceffone che gli schioccò gli fece voltare la testa di lato, la birra che schizzava via dal bicchiere, in direzione opposta alla maschera.


    il tuo nome compare sui giornali, e ora compari qui… solo per chiedermi un aiuto?» ---> compare, compari, cerca un sinonimo, ad es. “appare” o “salti fuori”, ecc.





    ma chissenefrega. ---> la maiuscola




    Allo scopo raccogliere ---> allo scopo di raccogliere




    (poteva fidarsi?). ---> niente parentesi, meglio un punto.




    CITAZIONE
    «Sonja,» disse «eccetto quanto necessario per le mie spese, anche tutto il compenso potrà essere tuo... se vuoi.»

    Non c’è bisogno di spezzare la frase, va benissimo tutta di seguito.




    sono un ologramma ---> di nuovo, la maiuscola




    un passo avanti, deglutì. ---> un punto al posto della virgola.




    CITAZIONE
    Nella sua testa, risuonò la voce di voce dell'Assassino Poeta

    Nella sua testa risuonò la voce dell’Assassino Poeta…


    Occhei, ce l’ho fatta ad analizzare anche la seconda parte, anche se con tremendo ritardo, e ora aspetto l’analisi dei personaggi :D

    As usual, buon lavoro, ciao!
     
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